Interpretare i dolori

Interpretare i dolori

01 Maggio, 2012

Spesso il primo approccio al guaio fisico è di attesa, nella speranza che si risolva da solo. Meglio sarebbe, invece, imparare ad ascoltare il proprio corpo

Si è detto tante volte quanto sia importante saper ascoltare le reazioni del proprio corpo a uno sforzo atletico e che l’insieme di piccoli sintomi e sensazioni, non sempre positivi, possono rientrare in una sorta di normalità legata all’impegno fisico. La mente tende allo stesso tempo a dominare un altro istinto che dice: «Chi me lo fa fare?», «Adesso sono proprio stanco e mi fermo», «Oggi non è giornata: sento tutta la muscolatura contratta e indolenzita». Si tratta di una mente carica di responsabilità, che si è imposta una tabella di allenamento, un obiettivo, una promessa da mantenere con un amico. E allora come la mettiamo? Da una parte la schiera di motivazioni forti e indispensabili per credere in quello che si sta facendo e per perseverare in una pratica salubre, dall’altra un corpo che protesta.

  • Come regolarsi
    È il momento giusto per mettere sul piatto della bilancia una serie di qualità che molto spesso si possono acquisire solo nel tempoe grazie a un’esperienza vissuta in prima persona: il buon senso e la prudenza, la capacità di interpretare al meglio le sensazioni del corpo, la conoscenza dei problemi di chi corre in modo specifico, la flessibilità nell’interpretare una tabella di allenamento, il saper ascoltare in prima battuta il consiglio di chi fa sport da tempo e ha più esperienza di noi. Quest’ultima qualità può peraltro essere fonte di infiniti dibattiti in quanto i consigli dell’amico possono essere i più disparati e ascoltandone dieci diversi otterremo dieci pareri, magari anche contrastanti tra loro. Sono consapevole di non rivelare niente di nuovo e posso aggiungere, mio malgrado, che questo potrebbe succedere anche ascoltando il parere di dieci medici. Torniamo allora a noi, al dolore che si è intanto manifestato. La prima domanda a cui dobbiamo dare una risposta è la seguente: perché è successo, perché ho questo tipo di problema? Se la mia risposta è certa, posso dire con una buona dose di otti-mismo che posso risolvere il problema in modo autonomo, ma se non ne conosco minimamente la causa, allora forse è meglio ricorrere a qualcuno che la conosce. Secondo passo: di solito la causa o le cause di un problema fisico meglio che da me sono conosciute dai medici (anche se non è sempre così, purtroppo). Quindi, se mi rivolgo a un medico, costui mi deve spiegare molto bene perché sia intervenuto, ad esempio, questo male al ginocchio che mi impedisce di correre. Accontentarsi di una risposta tipo «si è infiammato perché lei ha corso troppo» vuol dire esporsi al rischio che lo stesso problema si ripresenti una volta percorsi i primi dieci chilometri di corsa dopo la ripresa degli allenamenti. Condizioni particolari sono quelle legate a infortuni occasionali, come una distorsione o una lesione muscolare. In questi casi, ovviamente, l’evento accidentale, pur indebolendo la struttura, può risolversi in modo definitivo all’esaurirsi dell’episodio acuto.
  • Capire bene i perché
    Al contrario il medico deve essere molto convincente nello spiegarmi le cause del mio male e se non le conosce minimamente e prescrive un generico antinfiammatorio, forse mi converrà, la volta successiva, sceglierne un altro più preparato in materia. Del resto non si può pretendere che tutti i medici si occupino dei guai di chi corre e ne siano competenti. Terzo passo: mi chiedo come possa dare dei consigli terapeutici chi non conosce le cause del male. Questo ovviamente vale sia nel tentativo di autocura sia nel tentativo terapeutico del medico che, in buona fede, vorrebbe darmi dei consigli validi. In questi casi l’esperienza dell’amico, in particolare quando parliamo di terapie, è da prendere con le pinze. Ognuno può aver avuto esperienze di infortuni felicemente risolti, ma non è detto che quella cura, miracolosa per lui, riesca ad avere lo stesso effetto su di me. Questo può dipendere da sfumature legate alla forma infiammatoria o alla vera e propria patologia.
  • Il momento della svolta
    Il tempo di latenza di un potenziale infortunio, cioè il lasso di tempo che intercorre tra l’accadimento che l’ha causato e il momento in cui si manifesta, trova un picco statistico intorno ai venti mesi dall’inizio dell’attività. Questo sta a significare che dopo circa un anno e mezzo di pratica si ha un salto di qualità fisiologico che porta da una parte ad affrontare sedute di allenamento più impegnative e dall’altra a un accumulo di chilometri già significativo, in grado di innescare sindromi infiammatorie là dove vi siano le premesse perché queste facciano il loro corso. In questi casi a poco vale il riposo forzato, perché smorzare la situazione infiammatoria non vuol dire che questa non si possa ripresentare con la stessa facilità una volta ripreso un certo standard di allenamento. A fronte allora di una predisposiforzione anatomica particolare, l’infortunio si può concretizzare a distanza di tempo dall’inizio dell’attività sportiva e in effetti si manifesta solo in quei soggetti anatomicamente predisposti (ci sono persone con alterazioni anatomiche anche minime, ma significative in relazione all’attività fisica). Di qui la possibilità che due soggetti di medesima età, peso e altezza, quando sottoposti allo stesso allenamento, possano reagire in modo diverso superando o meno l’impegno in relazione all’eventuale insorgenza di inconvenienti fisici. Per questa conoscenza di noi stessi che è opportuno acquisire fin da subito, una volta fatto entrare lo sport nella nostra vita, i manuali possono essere di aiuto, come può esserlo consultare Internet, con un limite: non tutto quello che troviamo in rete è selezionato, per cui è facile imbattersi in argomentazioni superficiali, sviluppate su convinzioni nate da singoli episodi. Da considerare quindi in modo molto critico.